giovedì 9 febbraio 2017

Quando la grammatica ti salva la vita

 Racconto surreale (di fantasia)






La grammatica mi è sempre piaciuta. Forse per il tipo di scuola che ho fatto, quella classica, o forse per i bravi insegnanti che me l’hanno fatta apprezzare.
Non avrei creduto però che un giorno mi sarebbe servita per “salvare” una classe di studenti agli esami di maturità.
Era una classe V di un istituto professionale. Io ero commissario interno, il “difensore d’ufficio”, in una commissione allora tutta esterna di sei docenti.
Al professionale l’italiano è una materia sacrificata, poiché il grosso del programma è costituito da materie d’indirizzo. 
Il terrore degli studenti, anzi, studentesse nella quasi totalità, era perciò quello di avere un commissario d’italiano, o il presidente di commissione, che provenisse da un liceo.
Quell’anno dal Ministero venne nominato come presidente di commissione un’insegnante proveniente da un liceo classico, docente di materie letterarie.
Nella classe si diffuse il panico...
Io pensavo con preoccupazione ai temi scritti, dove la grammatica spesso latitava; e si sa quanta importanza abbia quella prova.
Gli esami iniziarono. La presidente si dimostrò fin da subito una persona severa e arrogante. Quando, finiti gli scritti e la prova tecnica, si passò alla correzione collegiale dei temi, dissi mentalmente, come Don Abbondio davanti ai bravi: “ci siamo”.
Il primo tema da correggere era di una delle migliori alunne. Non c’era rigo su cui la presidente non mettesse il becco e di conseguenza non facesse segnare con la matita. Cercavo di fare una strenua difesa, ma i segni al bordo del foglio o sotto le parole si moltiplicavano, mentre dentro di me pensavo alle alunne più “scarse”: questa me le boccia tutte.
Ad un certo punto (ovviamente un caso fortuito, ma per me qualcosa di più) ci imbattemmo in una frase che conteneva il pronome “sé stesso”, scritto proprio così, con l’accento sul sé.
La presidente (uso il termine boldriniano, per motivi inconsci) ebbe subito a dire: “Eh! Quando il sé è seguito da stesso o medesimo, sarebbe meglio non accentarlo”.
Ringraziai dentro di me il Signore, e pensai: questa volta ti ho fregato, cara mia! “No, dissi senza scompormi troppo, lasci stare; il pronome va bene così”. “Eh no! - disse lei alzando la voce - Quando il sé è seguito da stesso, è meglio togliere l’accento. Quindi lo segno”. Allora anch’io alzai un po’ la voce e dissi con fermezza: “È vero esattamente il contrario. Il pronome sé  andrebbe sempre accentato. Quando è seguito da stesso o medesimo, l’accento si può omettere”. 
“Come?! Ma non è così! Quando è seguito da stesso o medesimo, l’accento è bene toglierlo!”
Avevo ormai raggiunto il mio scopo: farle abbassare la cresta. Dissi: “Mettiamola così: se ha ragione lei, io mi gioco la mia onorabilità d’insegnante di lungo corso; se ho ragione io, lei ci paga stamani la colazione. Guardi, lì ci sono i dizionari: Zingarelli, Devoto-Oli, Palazzi… Scelga lei”.
Subito un commissario si alzò, prese lo Zingarelli, trovò il lemma e lesse a voce alta: “Sé, pronome personale di terza persona… Se seguito da stesso, anche senza accento”.
La presidente diventò bianca come il muro che aveva alle spalle, io feci finta di nulla e dissi: “Stamani ci paga la colazione”.
La correzione del tema continuò più o meno così: se una parola o una frase o una virgola le sembrava da correggere, prima diceva: “Senta, Amicusplato, io qui segnerei”. E io: “No, via, può andare bene anche così”...
Per farla breve, tutta la classe venne promossa.

Lo so che è ormai abitudine non mettere più l’accento dopo il sé, quando è seguito da stesso/a o medesimo/a. E anche l'Accademia della Crusca la considera opzione valida, insieme alla forma accentata. Ma ad es. l'Enciclopedia dell'Italiano Treccani usa sempre la forma accentata. La prof del liceo avrebbe anche oggi comunque torto; non poteva segnare né errore né imperfezione.

A meno che la Boldrini non emani una legge anche sugli accenti.



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